YA di Khadja Nin e la speranza


C'è stato un periodo, quando lavoravo a Milano, in cui scoprii una radio che ogni ora mandava un brano di World Music. Il commentatore aveva un accento straniero marcato, e aggiungeva sempre una nota biografica, una curiosità o una notizia del paese di provenienza dell'artista. Mi ha sempre affascinato la World Music, sebbene ascoltandola non si possa fare a meno di notare la presenza dell'uomo monderno, in fase di arrangiamento e registrazione, ma questo non deve stupire, perché questi artisti, almeno quando raggiunngono una certa notorietà, vanno ad incidere all'estero. I motivi sono due: il primo è che possono così avvalersi di strumenti costosi e sofisticati e di consulenza di persone più esperte. Il secondo, meno vistoso ma più importante, è che è meglio incidere in un luogo dove esista anche un potenziale mercato, perché lo scopo è pur sempre di vendere, e nel paese di origine si contano sulle dita di una mano quelli che possono permettersi di acquistare dischi ed hanno un mezzo per riprodurlo. La musica per loro è cultura di tutti i giorni, è la loro cultura stessa. In particolare Khadja collabora con un noto artista francese, e l'impronta di quest'ultimo si sente.

Più volte mi sono imbattuto in "Mama", di Khadja Nin, che il DJ era solito commentare con: "Il Burundi, un paese devastato dalle guerre tribali, questa grande artista ci porta un messaggio di pace e di speranza".

Atmosfere sensazionali, profonde, una voce vellutate e malinconica. E' uno dei miei dischi preferiti. Sembra non iniziare e non finire, quando lo infilo nello stereo della macchina difficilmente lo ascolto una sola volta, perché quando finisce non ne ho ancora avuto abbastanza, e fa almeno tre giri.

La sua voce struggente riflette la sofferenza che i suoi occhi devono aver visto, una sofferenza che nessun essere umano dovrebbe essere costretto a vivere e vedere.

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