I Bambini Afghani e la speranza

Ieri sera, visto che ero solo a casa e che per fortuna Zelig è finito, mi sono guardato "Chi l'ha visto?", che nel corso degli anni devo dire ha assunto la rilevanza e la serietà di un programma giornalistico che va al di là della ricerca di persone scomparse.
Ho seguito con estremo interesse e con la morte nel cuore la vicenda dei ragazzini Afghani, che dopo aver attraversato a piedi le montagne, camminando per tre mesi senza praticamente nulla da mangiare, arrivano a Parnasso, in Grecia, con la speranza di potersi imbarcare clandestinamente per l'Italia, perché nei loro sogni l'Italia dà asilo politico, perché in Italia troveranno un luogo accogliente che gli darà un lavoro onesto ed un luogo in cui vivere. Una Terra Promessa, detta così. E affrontano viaggi aggrappati ai semiasse dei TIR, sfiniti e sporchi, finché i loro muscoli riescono a tenerli, altrimenti morirebbero. Come ne sono morti tanti. A volte vengono scoperti, a volte arrivano in Italia e da qui vengono respinti, per tornare a Parnasso, in una baraccopoli fatta di tende di cartone ricoperte di cellophane, in luoghi senza i servizi minimi per vivere nella decenza di un corpo quantomeno pulito. Magari rifocillato.
Ho provato una grande pena nel vedere lo zaininetto con cui si mettono in viaggio molti di questi ragazzi, lasciando l'Afghanistan portando come unico bagaglio una bottiglietta d'acqua, un libro ed una confezione di biscotti. Come si possono affrontare camminate di tre mesi con una confezione di biscotti, a nove o dieci anni? Quanta deve essere la disperazione di un genitore per preferire per il figlio la sorte della totale incertezza, piuttosto della certezza dell'inferno in cui vivono?
Sarebbe ora che i Talebani, con il loro sussiego di liberatori del mondo, osservassero che cosa hanno fatto alla loro gente, quella per cui dicono di combattere, quella che a detta loro stanno "liberando".

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